Quattro anni di scuola, un Nobel. Come Grazia Deledda ha riscritto le regole del possibile

Il contesto

Nuoro, 1884. Una ragazzina di tredici anni scrive di nascosto, nella biblioteca paterna, mentre la famiglia dorme.
Se la scoprono, sono guai. Ha frequentato solo quattro anni di scuola elementare, in una terra dove le donne non leggono romanzi — figurarsi scriverli.
Quarant’anni dopo, quella ragazzina sarà a Stoccolma a ritirare il Premio Nobel per la Letteratura.

Sardegna, fine Ottocento.
Per una donna, il copione era già scritto: marito, figli, casa.
Leggere romanzi era considerato segno di perdizione. Scriverli? Impensabile.
Grazia Deledda nasce il 27 settembre 1871 a Nuoro, quarta di sette figli. Famiglia benestante: il padre è imprenditore, sindaco, e ha la passione per la poesia — ha persino fondato una tipografia.
La madre, Francesca Cambosu, è descritta come «donna di severi costumi».
Grazia frequenta la scuola fino alla quarta elementare, poi lezioni private di italiano, latino e francese con il professor Pietro Ganga.
Il resto? Autodidatta. Divora Tolstoj, Dostoevskij, Balzac. Di nascosto, ovviamente.

Gli ostacoli

A tredici anni inizia a scrivere. La reazione è unanime: scandalo.
Le zie incarnano l’opposizione più feroce — nel romanzo autobiografico Cosima, Grazia le ritrae mentre osteggiano apertamente le sue «ambizioni letterarie». Il prete tuona. I vicini mormorano.

«In famiglia mi si proibiva di scrivere: poiché il mio avvenire doveva essere un avvenire casalingo, di lavoro esclusivamente domestico, di nuda realtà, di numerosa figliolanza.»

Grazia non si ferma. A diciassette anni, nel 1888, invia un racconto alla rivista romana «L’ultima moda». Si intitola Sangue sardo.
Viene pubblicato. È il primo varco.
Ma quando le sue novelle iniziano a descrivere senza filtri l’ipocrisia della società nuorese, i concittadini reagiscono con furia. L’accusano di scrivere «menzogne e calunnie», di tradire la propria terra, di esporre ai forestieri i panni sporchi della comunità. La scrittrice che un giorno vincerà il Nobel viene trattata come una traditrice.

La svolta

1896: il romanzo “La via del male” riceve una recensione entusiasta da Luigi Capuana, padre del verismo italiano. Il mondo letterario inizia ad accorgersi di lei.
Prima di Madesani, c’è Andrea Pirodda — maestro elementare, intellettuale, il primo a spronarla davvero. Ma Grazia lo lascia. Il motivo? Lo definisce «troppo povero».
Non è cinismo: è lucidità. Sa che per uscire dalla Sardegna e affermarsi come scrittrice le serve un alleato con mezzi concreti, non solo belle parole.
1899: a Cagliari incontra Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, mantovano. Lo sposa nel gennaio 1900. Lui lascia il lavoro sicuro per diventare il suo agente letterario. In un’epoca dove il ruolo della donna era di supporto silenzioso al marito, questa inversione è così scandalosa che Luigi Pirandello — eterno rivale — lo soprannomina sarcasticamente «Grazio Deleddo» e la definisce «una brava massaia sarda».
Non basta. Pirandello scrive un intero romanzo, “Suo marito“, ispirato alla coppia Deledda-Madesani. Il protagonista è un marito-segretario ridicolizzato.
In una lettera al giornalista Ugo Ojetti, Pirandello scrive: «Son partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Un capolavoro, Ugo mio, dico il marito di Grazia Deledda».
Il suo editore, Treves, rifiuta di pubblicarlo — probabilmente su pressione della Deledda stessa. Pirandello deve rivolgersi a un editore minore.
La coppia si trasferisce a Roma. Grazia può finalmente dedicarsi interamente alla scrittura. A Stoccolma, nel discorso di ringraziamento per il Nobel, lo chiamerà «il mio compagno di vita».

I risultati

“Elias Portolu” (1903), “Cenere” (1904) — da cui un film con Eleonora Duse — e poi il capolavoro: “Canne al vento” (1913).
Le traduzioni si moltiplicano.
D.H. Lawrence, nell’introduzione alla traduzione inglese de “La Madre”, scrive: «Possiamo ancora leggere Grazia Deledda, con interesse genuino» — a differenza di D’Annunzio e Matilde Serao, ormai «difficilmente leggibili». La paragona a Thomas Hardy: la Sardegna è il suo Wessex.
Nel 1909, accade qualcosa di inaudito: il nome di Grazia Deledda compare nelle liste elettorali per la Camera dei Deputati, collegio di Nuoro.
Prima donna candidata in Italia. Le donne non possono nemmeno votare.
È una provocazione, certo. Ma anche un segnale.
10 dicembre 1927, Stoccolma. Grazia Deledda riceve il Premio Nobel per la Letteratura 1926.
Seconda donna al mondo dopo la svedese Selma Lagerlöf.
Prima — e ancora oggi unica — donna italiana.
«Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.»

Motivazione del Nobel

Pirandello vincerà il suo Nobel otto anni dopo, nel 1934. Morirà pochi mesi dopo la Deledda, nel 1936.
Due isolani, due Nobel, una rivalità che ha attraversato tre decenni.

La lezione

Grazia Deledda non ha combattuto con proclami.
Ha combattuto con i fatti: parola dopo parola, libro dopo libro, per decenni.
Senza internet, senza mentori, senza modelli.
Con solo la certezza che le sue parole meritavano di essere lette.

«Sono piccina piccina, sa, sono piccola anche in confronto delle donne sarde che sono piccolissime, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie intellettuali.»

Morì a Roma il 15 agosto 1936. Le sue spoglie riposano oggi nella chiesa della Solitudine a Nuoro, ai piedi del Monte Ortobene.
Nella terra che l’aveva osteggiata, e che ora la celebra.
Quattro anni di scuola. Un Nobel. Il resto è determinazione.

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